[il Mulino, Bologna 2014]
Fin dall’accostamento di titolo e sottotitolo, il libro di Marco Mondini problematizza gli automatismi con cui pensiamo la prima guerra mondiale: quel «1914-18» anticipa di un anno la cronologia in cui si iscrive tradizionalmente la Grande guerra degli italiani. L’ottica europea serve all’autore a mettere meglio in evidenza i tratti originali del vissuto nazionale: a partire dal fatto che l’Italia, a differenza degli altri Stati europei, non vive la fine della pace come un taglio netto. Il primo capitolo del libro mostra come, tra l’agosto 1914 e il maggio 1915, la nazione scivoli verso una guerra alla cui inevitabilità non solo la classe dirigente ma l’intera popolazione è ormai rassegnata nel momento in cui viene effettivamente dichiarata: nella primavera del ’15, mentre i diplomatici italiani ancora mercanteggiano tra ex e futuri alleati, milioni di giovani sono già mobilitati e nelle strade delle principali città lo scontro politico si è trasformato in guerriglia urbana, con i primi morti. Al racconto di questi mesi di transizione dalla pace alla guerra fa da contraltare quello contenuto nell’ultima parte del libro, che traccia un quadro non dissimile del post-1918: un’uscita dalla guerra difficile, e per alcune componenti della società impossibile; un incompiuto ritorno che apre lo spazio a una nuova guerriglia civile e a uno sbocco politico autoritario. La storia narrata nella Guerra italiana è il resoconto di come la società italiana abbia vissuto e rielaborato l’esperienza bellica prima, durante e dopo il conflitto. Mondini analizza innanzitutto la composizione anagrafica, sociale e geografica di un esercito che in quattro anni giunge a mobilitare l’80% della popolazione maschile in età militare, giungendo a un ritratto del più probabile morituro: «sui venticinque anni di media, contadino in un caso su due (o bracciante o manovale), proveniente perlopiù da una regione settentrionale, sarebbe stato condotto in combattimento da un ancor più giovane ufficiale di complemento, magari uno studente, un impiegato o un professionista, destinato a morire prima e più frequentemente dei suoi uomini» (p. 86). Accanto alla mobilitazione militare, la guerra ne mette in campo anche una civile, che apre la strada a un inedito protagonismo femminile: le donne diventano agenti di propaganda, assistenti sociali, coprono i posti di lavoro lasciati scoperti dagli uomini, lavorano come manodopera di fatica nelle retrovie del fronte. A fronte di questi cambiamenti, l’immaginario rimane cristallizzato sui ruoli di genere tradizionali: nei quotidiani e nelle riviste, nelle cartoline e negli opuscoli di propaganda, le donne sono madri, mogli e figlie in attesa, angeli consolatori o prede erotiche.
L’oscillazione tra vissuti reali e rielaborazione nell’immaginario è una costante, sapientemente gestita, del libro. Alle modalità di costruzione sociale della guerra è dedicata in particolare la seconda parte, che analizza sia i racconti di chi la guerra l’ha fatta (soldati che scrivono lettere, ufficiali che scrivono memorie, romanzi e poesie), sia quelli di chi, lontano dal fronte, produce le narrazioni e le immagini che alimentano la «guerra delle illusioni»: giornalisti, fotografi, cineasti, illustratori di riviste e di cartoline, autori di fumetti e di libri per l’infanzia. La «guerra delle illusioni» costruisce consenso, che è «ciò che conta maggiormente in una guerra totale e di massa» poiché, senza, non sarebbe possibile spiegare come «la maggior parte di coloro che vennero travolti dalla guerra, fossero soldati al fronte o donne mobilitate nelle retrovie, fece la propria parte fino in fondo» (p. 11). Non va perciò interpretata esclusivamente come il prodotto di ciniche operazioni di propaganda, ma anche come una risposta all’esigenza psichica di rimuovere il trauma della macelleria tecnologica: ben presente, sui fronti del Carso, nella realtà della guerra italiana, molto meno in un immaginario che si cristallizza precocemente intorno alle immagini sublimi della “guerra bianca” alpina.
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